“Chav. Solidarietà coatta” di D.Hunter (Edizioni Alegre) tradotto da Alberto Prunetti
è un altro titolo importante uscito quest’anno che abbiamo presentato al Festival di letteratura sociale e che potete trovare nella bilioteca di Polveriera.
Qui una recensione di Christian Raimo su Minima&moralia
Che Chav fosse un libro così bello e importante non me la aspettavo. Immaginavo che questo breve memoir di D.Hunter fosse un testo rappresentativo, anche paradigmatico della riflessione della working class alla fine del novecento operaio; il sottotitolo italiano Solidarietà coatta prova a tenere insieme la forza del neologismo ma anche il senso della nuova soggettivazione politica che D.Hunter invoca: chav in inglese è un termine gergale di origine incerta, che vulgata vuole indicare i Council House And Violent, i proletari violenti che vivono nelle case popolari (Owen Jones nel 2011 sdoganò questo termine con un bellissimo saggio colpevolmente ancora non tradotto in italiano, Chavs: The Demonization of the Working Class).
Invece qui abbiamo un piccolo classico: un romanzo di formazione, un manifesto politico, un libro per ragazzi, un saggio sulle questioni di genere. In Chav gli elementi biografici sono così esemplari da rendere quello che si presenta come un testo d’occasione nel filone che Alberto Prunetti, il direttore della collana di Alegre per cui è uscito, chiama working class fiction, in una pietra angolare per chi vuole ragionare su cosa vuol dire fare politica oggi.
E proviamo a spiegare perché questo testo sia così rilevante. Prima ragione è la smodata sincerità di D.Hunter. Siamo abituati a un discorso politico che fa della performance, della retorica, della sua capacità comunicativa la sua natura; ciò che è grezzo viene spesso considerato apolitico o al massimo prepolitico. E invece ogni tanto mi sono ritrovato a dovermi fermare per appuntarmi le sintesi che D.Hunter faceva della sua vita e le sentenziali analisi politiche che ne ricavava.
(“La prima volta che ho fatto sesso per denaro avevo dieci anni, l’ultima volta ne avevo quindici. Per tre anni è stata la principale fonte di reddito a casa di mia madre, prima di diventare più abile nello spaccio e nei furti. Anche mia madre faceva sesso per denaro, ma poi quei soldi finivano in eroina, in alcolici, e una fetta andava al tipo che la sfruttava. Per questo dovevo trovare un modo per garantire cibo a me e alle mie sorelle, comprare vestiti per andare a scuola, evitare che il contatore elettrico a pagamento arrivasse a zero. È stata mia mamma che mi ha spinto a farlo, le prime volte”/ “I nostri corpi sono intrisi di connotazioni di classe, e i corpi delle persone senza capitale valgono meno. Per questo possono smontare i nostri corpi, possono comprarli e venderli, imprigionarli e poi lasciarli andare. E tutto questo ha per loro poca importanza”).
La seconda ragione è la sua intelligenza nel riconoscere sempre di essere una parte della catena di potere: anche da oppresso, la responsabilità di essere oppressore. Nell’era del vittimismo, sono strazianti le pagine in cui racconta la serie di umiliazioni che ha subito tra riformatori, abusi, carceri minorili, povertà, e poi ricorda il privilegio di essere un maschio bianco (“non conosco nessun nero o nera d’estrazione working class che ce l’abbia fatta, anche se sicuramente qualcuno ci sarà, ma son certo che per loro è stato più difficile che per me”).
La terza ragione è l’attenzione politica con cui viene applicata una teoria gramsciana ai movimenti di sinistra degli ultimi trent’anni. D.Hunter incontra I quaderni dal carcere in un letto d’ospedale (“Nella corsia c’erano dei libri. Cominciai con difficoltà a sforzarmi di leggerli. Dai tempi delle scuole elementari non avevo più letto nulla. Poi mi passarono i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. A quel punto presi tutta un’altra strada. Metà del libro mi volò letteralmente in testa. Lo leggevo a passo di lumaca, sillabando le parole a voce alta, ricorrendo al vocabolario ogni due frasi, ma andavo avanti”) ed è chiaro come sviluppi da lì una chiave di critica politica tanto alle ideologie del potere quanto all’inefficacia delle mobilitazioni nella lunga fase neoliberista (“Con poche eccezioni i movimenti e le campagne con un programma di liberazio‐ ne e cambiamento sono deboli. Hanno poco o nessun potere e ripetono gli stessi schemi. Pretendono di rappresentare il popolo. Sostengono di parlare a nome delle persone marginalizzate, si atteggiano a bussola morale del paese e agiscono, si muovono e parlano sempre alla stessa maniera. Parlano di “sensibilizzare le coscienze” allo stesso modo in cui altre persone parlano di lavare i piatti […] Non rischiano nulla, la loro sopravvivenza non è a rischio. Avranno sicuramente le loro ferite psicologiche, vivendo in una società capitalista, ma ricevono anche ampie compensazioni”).
Anche qui non si parla di ferite psicologiche per caso; Chav è un libro pieno di dolore e di riflessioni sul dolore. Non può esistere politica ci dice se non ci stanno a cuore il disagio mentale, l’abuso sull’infanzia, la condizione di isolamento, la povertà assoluta, la violenza subita e inferta. E soprattutto non può esistere politica se non riconosciamo le condizioni che ci servono a emanciparci; condividiamo la nostra storia di oppressioni e i modi in cui abbiamo cercato di liberarci.
https://www.minimaetmoralia.it/…/chav-un-classico…/